Il dottor Francesco Crestani fa chiarezza sulla cannabis terapeutica, CBD e THC. (intervista)

Intervista al dottor Francesco Crestani, medico specialista in anestesia e rianimazione ed esperto di cannabis terapeutica e di terapia del dolore.

Negli ultimi giorni con l’emendamento alla manovra “Misure a sostegno della filiera della canapa”, presentato dal deputato Riccardo Magi di +Europa, in commissione bilancio alla Camera, è ripreso il dibattito con relativa polemica politica sull’uso della cannabis terapeutica.

I prodotti derivati dalla pianta ormai sostengono un indotto con migliaia di lavoratori. Ma ci sono chiusure ideologiche e posizioni politiche ben precise, che ormai si scontrano da decenni. Intanto però il mercato fiorisce, con sempre più prodotti disponibili anche in rete e con l’Italia che deve colmare un vuoto normativo ormai ingiustificabile. Ma è opportuno fare chiarezza e capire bene a cosa serve realmente la cannabis e quali sono i rischi per i consumatori.

Per questo abbiamo posto le nostre domande al dott. Francesco Crestani, il primo medico ad effettuare una richiesta di importazione di un cannabinoide in Italia (2001), nonché uno degli autori del primo libro scientifico-divulgativo sulla cannabis medica nel nostro Paese.

Dottor Crestani, che cos’è la terapia del dolore?

La terapia del dolore è una branca recente della medicina; esiste da pochi anni ad essa si dedicano soprattutto gli anestesisti e i rianimatori che sono sempre stati  interessati al tema del dolore. Ed è strano che ci si è dedicato a questo campo da così poco tempo, perché di solito una persona va dal medico perché prova dolore o ha qualche disturbo. 

Stranamente non si è mai considerato il dolore un campo della medicina, come invece è considerato adesso, soprattutto il dolore cronico, che diventa una vera e propria malattia.

A chi è rivolta la terapia del dolore?

Il campo è molto vasto. Se pensiamo a dati recenti, pare che ci siano da 13 a 16 milioni di Italiani che soffrono di dolore cronico; e una buona parte di questi soffre da almeno 7 anni, un’altra parte ha provato vari tipi di terapia senza risultati.  Per questo è un campo estremamente vasto.

Cannabis terapeutica: come è usata?

Uno dei campi applicativi della cannabis è appunto la terapia del dolore; per questo è nato l’interesse, ma poi si è visto che la cannabis è un farmaco a tutti gli effetti, una pianta terapeutica. Questo era noto da millenni, però le ricerche recenti hanno dimostrato che questa sua attività non interessa solo il dolore ma anche una vasta serie di patologie.

Questo perché abbiamo nel nostro organismo un sistema molto importante,  denominato endocannabinoide.  Sul sistema endocannabinoide agiscono i cannabinoidi esterni, ovvero quelli della pianta. Questo sistema è molto diffuso in tutti gli organi. Per questo, le applicazioni sono molto vaste oltre al dolore, e ogni giorno si scoprono nuove possibili potenziali applicazioni.

I cannabinoidi principali sono CBD e THC; quando lei parla di cannabis terapeutica, parla di tutta la pianta o di questi due elementi?

Quando parlo di cannabis terapeutica parlo di tutta la pianta; perché nella pianta troviamo THC e CBD che sono le molecole principali,   poi ci sono altri cannabinoidi minori ma anche altre sostanze come i terpeni, sostanze che tutte insieme contribuiscono all’effetto terapeutico nonché a limitare gli effetti collaterali della molecola singola. Perché in verità si potrebbe, come alcuni auspicano, usare anche la molecola singola, ossia il singolo CBD o il singolo THC che può essere certamente utile; però vari studi ed esperienze di tanti medici e pazienti, dimostrano che la cannabis intera è meglio della somma di singoli elementi.

Sta parlando del cosiddetto effetto entourage?

Si. L’effetto entourage consiste nel fatto che tutte le varie sostanze che compongono la cannabis agiscono in vari punti del metabolismo delle nostre cellule; come se fosse una specie di coro invece che una voce singola, come poteva essere una molecola che agisce in un preciso punto. Ovvero: la ricerca del piccolo punto specifico del nostro metabolismo è una ricerca che si è dimostrata, in questi casi, vana. E’ anzi molto più utile agire a 360 gradi su diverse disfunzioni che possono alterare il nostro organismo.  

Per quale tipo di pazienti viene usata la cannabis terapeutica? E quali sono i suoi effetti?

Nel dolore cronico si è dimostrata efficace e questo è dimostrato.

C’è un rapporto ufficiale dell’accademia delle scienze americana del 2017 che dice chiaramente che la cannabis è efficace nel dolore cronico dei pazienti adulti. Ma ci sono altri casi specifici oltre al dolore cronico: come l’epilessia farmacoresistente, c’è il glaucoma, c’è l’effetto anti-vomito nella nausea da chemioterapia, c’è l’effetto antispastico nei pazienti con problemi alla colonna, c’è l’effetto antinfiammatorio nelle patologie croniche, quindi sono possibili tante applicazioni in tanti campi.

In Italia si parla molto, anche nel mondo della politica, dei due principali elementi della cannabis; CBD e THC. Qual è la differenza fondamentale tra loro?

In molti casi gli effetti si sovrappongono; hanno tutti e due un certo effetto analgesico e antinfiammatorio. Il THC è la parte che dà il cosiddetto sballo nella cannabis. Il THC ha l’effetto psicoattivo. Il CBD invece non ha questi effetti di sballo, anzi tende a contrastarli, per questo è auspicabile in certi casi, utilizzarli insieme, perché riduce gli effetti collaterali che non sono voluti sui pazienti.

In Italia in questi giorni sono riaffiorate le polemiche politiche per un emendamento presentato per definire il quadro normativo rispetto alla cannabis light, visto che esiste già un mercato nel nostro Paese, che vede impiegati oltre 10 mila lavoratori. Ci sono anche migliaia di negozi aperti in tutta Italia, dopo la legge del 2017 che vendono prodotti derivati dalla canapa tra cui l’olio di CBD per esempio. Ma questo elemento, il CBD è una droga?

Il termine “droga”, dal punto di vista tecnico, significa “farmaco”, quindi se lo consideriamo un farmaco, come in verità è, perché ha degli effetti notevoli dal punto di vista farmacologico, è meglio che venga maneggiato da esperti del settore. Per questo motivo non la vedo bene come autocura di una patologia grave, come può essere l’epilessia farmacoresistente di un bambino. E’ meglio che, quando usato come farmaco, sia considerato un farmaco, e quindi usato sotto prescrizione medica e preso in una farmacia perché deve essere testato, deve essere un CBD da una pianta testata, che non provenga da coltivazione sconosciute e che abbia un dosaggio ben preciso e sempre ripetibile, di sostanza attiva.

Questo per quanto riguarda l’uso terapeutico. Ma la legge riguardava anche l’uso per così dire ludico, cioè il fatto di poter prendere l’olio di CDB con una concentrazione che può andare dal 2,5 al 20 -30% in vari  negozi; secondo Lei questo uso può essere comunque senza rischi? Senza effetti collaterali? Ovviamente preso con le dovute cautele e sempre sotto indicazione di un medico.

E’ difficile che un medico prescriva un prodotto di questo tipo preso in un negozio di quel tipo, anche se ammettiamo che il CBD di per sé non ha grossi effetti collaterali; praticamente sono quasi sconosciuti gli effetti collaterali o potenziali effetti negativi di questa sostanza; direi che è una sostanza estremamente sicura e che in molti casi può aiutare; non diciamo in patologie, ma può essere un aiuto, come può essere una pianta medicinale presa in erboristeria, quindi da questo punto di vista non vedo particolari problemi.

E certamente una pianta con solo CBD è una pianta benefica se la consideriamo da un punto di vista più largo.

Se invece pensiamo ad una terapia, allora è meglio che ci si rivolga ad un medico che prescriva un prodotto controllato di farmacia.

Attualmente in una situazione di vuoto normativo si procede a colpi di sentenze, ultima, quella corte di giustizia europea che ha sancito la libera vendita del CBD tra gli Stati membri. Secondo Lei, in Italia, quanta strada bisogna fare ancora? E quale sarebbe un giusto equilibrio tra medicina e legge?

Quando si parla di medicina e di scienze, sarebbe giusto andare avanti   non a colpi di decisioni di magistrato, ma in base alla ricerca scientifica, perché tanti medici, specie quelli meno propensi all’uso di cannabis, lamentano che non si può fare medicina in base alle sentenze di un magistrato, il quale non ne sa niente e magari interpreta in un modo o nell’altro certi dati.

Quindi sarebbe opportuno che si facesse maggior ricerca e si procedesse  in base alle esperienze e alle conoscenze scientifiche e ai dati della letteratura.

Lei è un profondo conoscitore della fitoterapia e spesso questo termine è associato, nella nomenclatura comune, a prodotti di erboristeria per esempio; ci può spiegare cosa è la fitoterapia realmente? E quali sono le sue applicazioni pratiche?

La cannabis è proprio la quinta essenza della fitoterapia: ossia la terapia con le piante in cui si sfrutta tutta la pianta e non la singola molecola per avere appunto un aumento degli effetti terapeutici e una riduzione degli effetti collaterali. E questo è dato da tutta quanta la pianta, dal totum della pianta, qualcuno lo chiama fitocomplesso, oppure si parla di sinergia, cioè nelle piante, e la cannabis è proprio il classico esempio, non c’è una singola sostanza, ma ci sono tante molecole che tutte insieme contribuiscono all’effetto benefico della pianta e riducono anche certi effetti collaterali della molecola singola.

Quindi è importante studiare le singole molecole e arrivare alla pillola anche di THC in certi casi. Però come si è visto in molti casi e in molti studi, è veramente importante avere, tutta la pianta, perché tutta la pianta contribuisce all’effetto. Questa è la fitoterapia.

Ovviamente quando si parla di terapia, soprattutto quando si parla di patologie importanti è bene che questa cosa sia studiata da un medico che conosca bene cosa c’è all’interno delle piante, e sappia prescrivere esattamente gli estratti più indicati per quel tipo di malattia.

Quindi serve un professionista che nel caso di patologie serie è meglio che sia un medico

Caro dottore, un’ultima domanda si attualità. Lei è specialista in anestesia e rianimazione, la sua categoria è stata tra le  più colpite dalla pandemia di covid, anche pagando un prezzo di sangue. Questo settore tempo fa ha lanciato l’allarme: l’associazione degli anestesisti e rianimatori, oltre alla richiesta della chiusura di molte attività, ha denunciato la mancanza di  almeno 3000 specialisti. Secondo Lei quanto può reggere con questi numeri il sistema sanitario nazionale? Le chiedo inoltre: cosa è andato storto e cosa invece ha funzionato nella gestione del coronavirus?

E’ un problema drammatico! Da anni la categoria degli anestesisti è stata negletta; lo dicevamo già dagli anni scorsi che eravamo in pochi. Siamo sempre meno e dobbiamo accollarci sempre più lavoro.

E adesso di colpo quei pochi che c’erano, sono stati costretti a fare un lavoro triplo. E’ vero che aumentano i posti nelle rianimazioni; ma erano già pochi. Io stesso, come tutti i miei collegi, devo lavorare enormemente di più rispetto a prima. Poi gli interventi di routine sono stati bloccati.

Le terapie antalgiche sono state bloccate. La mia stessa terapia antalgica è stata bloccata e molti anestesisti e rianimatori che si occupavano di terapia del dolore, sono stati dirottati nelle sale operatorie e nelle rianimazioni perché siamo in emergenza. Perciò i pazienti con dolore adesso rimangono senza terapia o devono aspettare mesi prima di avere una visita o una cura.